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L'uomo «d’ogni luce muto» - Poema breve in chiave moderna sulla Divina Commedia per la 21ª edizione del Premio Letterario Internazionale "Trofeo Penna d'Autore"



Della fragile natura umana si va a cantare
e della luce e delle tenebre del cuore mortale
Musa, aiutami a narrare.
Penna racconta di quanto fatale fu il piacere sublime
e arduo il ritorno all’oscurità del cuore
che l’animo mio dovette affrontare.
Con le gentili ali custodisci il mio spirito
tediato dalla difficile discesa avvenuta
nell’alcova mia innocente che,
dalle braccia di Morfeo, dinanzi a colui
che della Divina Commedia è il padre mi fece trovare.
Impossibile chiamar per nome le colpe da espiare;
dall’accidia alla superbia
passando per l’ira, l’avarizia e la violenza.
Il sole era da tempo calato e l’animo mio era agitato
da un’insulsa sete di luccichio.
Non si narra di luce e, neppure, di bene materiale
ma della voglia di risplendere
che mi gettò nel baratro abissale.
Un viaggio nella luce avevo affrontato e,
la consapevolezza che ne nacque,
per poco m’aveva abbagliato.

Cara la pagai quando di fronte a Dante mi trovai.
Passai dal comodo e caldo giaciglio della mia stanza
a quell’infernale panorama di perdizione.
Senza capir dove fossi finita
mi dimenavo, esaurita, per il terrore che,
dagli occhi al cuor mio, l’immagine generava.
Un fiume infernale traboccante di dolore
mi apparve, improvvisamente,
cingendomi dalle caviglie d’argilla pietrificate.
Cercai di liberarmi dalla soffocante morsa
che immobile mi costringeva a restare
a causa di corde, nodi e armature metallizzate.
Le lacrime scendevano copiose dal veglio di Creta
e cadevano sulla mia pelle gonfia dal colorito esanime,
procurando dolore e lacerazione.
Dante e il suo Maestro con sguardo di pietà e agitazione
mi rimiravano il capo dipinto della dorata cera che,
gocciolante, mi scendeva lungo le braccia e il petto
legati da un fil di ferro argenteo.
Il tronco era fossilizzato in un'armatura di rame
e le gambe, giunte in una colata di ferro,
finivano in piedi d’argilla crepata e sciolta
per l’azione erosiva del paludoso Stige.
Urla, pianti e lamenti si univano in melodia
al sudicio pantano che ribolliva le anime di coloro
che d’ira e accidia avevan la loro vita condotto
mentre Flegiàs, il traghettatore,
con l’imbarcazione li travolgeva.
«Chi è costei?» domandò il discepolo alla sua guida.
«Dante, il suo nome non puoi conoscere.
Quest’anima è in viaggio e possiede ancora un corpo.
Ma di tenebra si è circondata.»
«Come?» chiese con turbamento.
«Dimenticando dell’uomo l’aspetto suo divino»
suggerì il Sommo in modo contorto.
Vidi i suoi occhi specchiarsi, con estrema pietà, nei miei.
Mortificazione e pentimento dipinsero il mio volto laccato
mentre le anime dannate mi urlavano contro, imprecando
e Flegiàs la lingua biforcuta mostrava goloso del mio spirito.
Le imponenti torri della città di Dite fiammeggiavano,
aizzate dal vento gelido nel quale diavoli dall’orrido aspetto
attendevano goduriosi, assetati di dolore e malvagità.
E il ringhio del giudice Minosse si univa allo schiocco di coda
con il quale i peccatori eternamente condannava.
«Il libero arbitrio dell’uomo è causa di tal supplizio.»
«Basta un sibilo per far parlare le ombre.»
Vagheggiavo in preda a una possessione senza fine.
Risi. «Il fuoco, seducente, mi ha tentato.»
I due mortali mi fissarono con sgomento.
«Dante, avvicinati» sussurrai.
La guida lo trattenne senza successo.
L’essere riflesso nello Stige scoppiò in una lugubre risata.
«Avevo la luce nelle mie mani» singhiozzai disperata.

Rinvenni col panico in gola e la disperazione nel cuore.
Guardai le stelle fuori dalla finestra che,
tranquille, illuminavano la terra inumidita.
Con occhi sbarrati e sguardo grave
mi fissai allo specchio con estremo turbamento.
L’incubo era finito
ma lo spirito era stigmatizzato dalla condanna.
La perdita della luce era causa del disfacimento dell’umano
e il mio essere di tal sanzione
divenne Suo messaggero involontario.
Non so narrar dello smarrimento
che il cuore mio gridava in preda a una angoscia infinita
e costernazione non riusciva a comunicare.
Il dolore a parlar mi obbliga
poiché dell’uomo di oggi il tetro destino devo raccontare
per colui che vive senza la luce accarezzare,
ogni valore abbandonare e narciso si specchia nella pozza interiore.
Con le labbra mute narro a te, lettore,
i versi che la mano mia ha scritto
guidata dallo Spirito del mondo del quale io, misera,
divengo semplice ambasciatore.

Jennifer Di Giovine

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